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Pinocchio: la parabola universale del destino dell’uomo


Pinocchio: la parabola universale del destino dell’uomo

Pochi hanno saputo cogliere nella favola di Pinocchio la parabola cupa e impietosa dell’avventura umana. Al di là dei toni ironici e scanzonati, e dei facili didatticismi, il celebre burattino è in verità la caricatura ferocemente ironica di un’umanità menzognera, tirannicamente mossa dai fili dell’accidentalità, dalle emozioni negative e dall’infelicità del suo destino ineluttabile. Dietro la superficie, questa favola nasconde il più grande ed audace testo mistico della letteratura mondiale, il viaggio iniziatico dell’uomo da pupazzo in preda alle sue pulsioni a uomo vero, dotato di volontà. Non a caso è il libro più letto, dopo la Bibbia e il Corano.

Un testo mistico travestito da fiaba Se la letteratura universale, da Aristofane a Beckett, conta innumerevoli grandi prosatori, forse non ce n’è mai stato uno così intelligente, ironico e defilato come Carlo Lorenzini, alias Collodi. Si sa. Siamo una specie suscettibile, e anche violenta. Chiunque nel corso dei secoli abbia dovuto rivelarci verità spiacevoli, o infrangere pregiudizi radicati, ha dovuto prendere opportune precauzioni. Copernico, per esempio, nel presentare la sua rivoluzionaria scoperta nel “De Revolutionibus”, prese due precauzioni: a) dedicò la sua opera al papa, b) per maggiore sicurezza, la pubblicò postuma!

Anche Lorenzini ha dovuto travestire da fiaba la scoperta del più terribile dei segreti e passare alla storia come un autore per bambini piuttosto che come un antropologo, tra i più profondi conoscitori della nostra natura e dell’etologia umana. Un giorno, un’umanità più saggia, più consapevole,  lo riconoscerà come l’uomo che seppe rivelarci senza sgradevolezza l’orrida, cruda verità: l’umanità è fatta di milioni di marionette; siamo pupazzi biochimici, guidati da fili invisibili, siamo bugiardi inguaribili. Soprattutto lo apprezzerà per avercelo detto senza che la sua opera fosse messa al rogo, facendoci perfino sorridere delle disavventure del povero burattino, lontani mille leghe dal riconoscere nella sua legnosità, nella natura menzognera e nell’inveterata irresponsabilità, le stimmate psicologiche della specie sapiens e le vere radici di ogni nostra sventura.

L’abbandono della sua spoglia di burattino e la trasmutazione a bambino non è un malinconico passaggio alla normalità, una fuga crudele dall’incanto dell’infanzia e dalla sua prorompente vitalità. È questa l’interpretazione anche di Benigni che nel finale fa seguire il bimbo dall’ombra del burattino, quasi una larva della sua fantasia e dell’originaria voglia di vivere. Che fraintendimento! In realtà, Collodi ci mette di fronte all’orrore di una subumanità burattinesca, uomini-luna, influenzati da tutti e ogni cosa, zombi, che attraverso disavventure, dolori, antagonismi e delusioni, un giorno faranno il passaggio ad una vera umanità, uomini-sole, radiosi di luce propria, proattivi, responsabili.

Parafrasando Caligola che così parlava ai suoi ministri, analogicamente, potremmo dire: se Pinocchio è un burattino, noi siamo uomini. Ma se Pinocchio è un uomo, noi siamo esseri ancora ai primordi della coscienza, larve chiuse in un bozzolo, in attesa di perforarlo ed evolverci. Un enigma da risolvere Sul racconto di Pinocchio aleggia un mistero, un enigma che vorremmo risolvere. Come mai a uno scrittore come Carlo Lorenzini, che in tutta la sua carriera non si è mai levato al disopra di un Thouar o di un Dazzi, ad un tratto scappa di mano una storia immortale, un’opera oggettiva, un capolavoro mondiale che ha la profondità insondabile di una parabola evangelica. È mai possibile che una favola concepita di getto, forse di malavoglia, senza un piano preciso, da un uomo probabilmente sconfitto da delusioni personali e politiche, possa diventare eco di un messaggio universale, specchio di un’umanità intera? Sgomenta il pensiero. E perché, a differenza di tutte le altre sue opere, non la firma con il suo vero nome e sceglie invece un ‘nom de plumè?

Trucioli di legno della nostra anima Le due domande possono ridursi ad una, nel senso che c’è una spiegazione, o meglio un’ipotesi di spiegazione, che risponde ad entrambe. L’ipotesi è che quel testo sia ispirato, sia cioè l’effetto di una folgorazione.

L’avventura di Pinocchio, il romanzo per l’infanzia più letto e più tradotto del mondo, sotto le mentite spoglie di una lettura per bambini cela il più grande e audace testo mistico della letteratura mondiale. In realtà quello che vediamo in Pinocchio sono i trucioli di legno della nostra anima sperduta. Questo spiega la sensazione del lettore che in Pinocchio il testo sia reale e l’autore un’ipotesi innecessaria. La sua esistenza è superflua, come nell’Antico Testamento, come nei Vangeli. Ci sono libri sacri, non autori sacri. Carlo Lorenzini non si è sentito di firmare una storia universale, scritta nei cieli, e che egli si era limitato semplicemente a trascrivere. Il tremendo segreto Benedetto Croce scrisse che “il legno in cui è intagliato Pinocchio è l’umanità”.

Di tutte le fiabe mai scritte, Pinocchio è forse la più completa e la più crudelmente sincera, Appartiene di diritto al genere delle “black fable” alla Orwell e la sua spietatezza è eguagliata soltanto da “la fattoria degli animali”.  Essa è il filtro trasparente di un’umanità alla deriva, che vive tra paura e ignoranza della propria identità. Il racconto delle avventure di Pinocchio fa parte dell’arte dei misteri: l’arte di rivelare nascondendo. Il segreto che da oltre un secolo è sotto il naso di milioni di lettori di tutto il mondo, è tremendo. Pinocchio è l’immagine speculare del burattino biochimico cui si è ridotto l’uomo, l’uomo così come noi lo conosciamo. Siamo restii a riconoscerci nell’immagine grottesca del personaggio di Collodi, ci ripugna identificarci con quel legno parlante apparentemente vivo ma in realtà guidato da forze esterne, da terribili fili invisibili.

Nello specchio scorgiamo l’immagine di Pinocchio, la sua imbarazzante, delatrice appendice, ma proprio come Narciso, ci rifiutiamo di riconoscerci in quell’allucinato riflesso, nella legnosità di quell’essere, nella sua cronica, inguaribile mendacia, nella sua slealtà. La trappola Chissà se Collodi, dovunque sia, soffra o rida, di milioni di lettori, di innumerevoli generazioni di bambini che a tutte le latitudini si sono addormentate cullate dalle parole e dalle immagini incantate di questa fiaba, senza neppure sospettare della sua vera natura di parabola cupa ed impietosa della natura umana. Eppure già dalle primissime parole il favoleggiatore, il Collodi, ci preavverte della trappola che è lì ad attenderci, della frode che scopriremo solo troppo tardi, una volta superata la soglia del mondo della favola annunciata con le fatidiche parole: “c’era una volta…”.

È come se il Lorenzini fosse tenuto a metterci in guardia contro la sua stessa frode, vincolato a una improbabile deontologia che ricorda quella del Gatto e della Volpe. Varcata la soglia promessa di un racconto per ragazzi, l’accordo tacito col lettore è repentinamente stravolto e ci troviamo di fronte all’ironia spietata e sublime di una favola macabra. Leggendolo, il libro si dilata in un universo labile, minatorio e stupendo che inizia con un’assenza inquietante. Quella del Re. Al posto del Re-individuo c’è la massa, una moltitudine festosamente plebea. L’eterna dialettica tra massa ed individuo, tra destinazione e destino, si delinea e squarcia il nostro universo in due parti.

La vittima è sempre colpevole Pinocchio è il pezzo di legno da catasta, fa parte del mucchio. È materia che chiama distruzione e cenere ed insieme vuole diventare e trasformarsi. In questa trasformazione gli antagonisti, rappresentati dal Gatto e la Volpe, hanno natura provvidenziale e religiosa, ideologica e teologica. Il mondo è uno specchio. Attraverso eventi, nel suo linguaggio simbolico fatto di circostanze e di incontri, manda continuamente segnali, indizi, sintomi. Se Pinocchio (leggi l’uomo così com’è) fosse capace di leggerli non sarebbe quell’essere costantemente impegnato nel proprio sabotaggio, non farebbe la scelta sbagliata davanti ad ogni bivio dell’esistenza, non sarebbe inaccessibile all’esperienza, in capziosa collaborazione con l’errore e con l’equivoco.

Il Gatto, feroce e semplice, la Volpe, ironica ed efferata, sono figure poetiche di criminali. I personaggi che popolano il mondo di Pinocchio non sono altro che proiezioni della nostra immaginazione, figure nella cui esistenza crediamo così tanto che sono finite a infestare il nostro mondo reale. E primi avanti a tutti troneggiano il Gatto e la Volpe, con le loro deformità fisiche, simbolo di una coscienza marcia, mascherata da astuzia. Una severa deontologia le obbliga a mettere in guardia la vittima con mille segnali, contraddizioni e lapsus. Insomma essi possono derubare solo chi è fermamente intenzionato e deciso a farsi derubare.

Per questo, un giorno, nei tribunali di un’umanità progredita leggeremo scritto a lettere cubitali: “la vittima è sempre colpevole” Il Vangelo secondo Pinocchio L’idea iniziale, il sospetto che questo racconto nasconda una parabola del destino dell’uomo, un Vangelo, una Bibbia senza tempo, si rafforza e guadagna terreno man mano che avanziamo nella lettura. Il primo personaggio che balza in scena è un falegname, Mastro Ciliegia. E la figura genitoriale si chiama Geppetto, nome socievole di Giuseppe.

Geppetto non è un falegname ma ha strumenti ed intaglia il legno. È molto più di una coincidenza. Procedendo scopriamo la carica inesauribile di simboli, enigmi e allegorie di una storia che sotto la corteccia rugosa e dura del burattino più celebre del mondo nasconde l’uomo alla ricerca di se stesso. Che prestigiatore e illusionista è questo Lorenzini-Collodi che nasconde la verità sotto il naso di tutti. Pinocchio nasce da un falegname chiamato Giuseppe o Geppetto. Per di più questi ha in testa un parrucca gialla che somiglia, è vero, a una polenta povera e calda, ma anche al giallo dell’oro di una aureola.

Ma allora… Come abbiamo fatto a non capirlo… Pinocchio é… é… Un pezzo di legno da catasta, un uomo nel mucchio, diventa RE-individuo, reale. Il progetto magico della nostra evoluzione è racchiuso in quella fiaba come un vangelo di trasformazione da burattino a uomo vero, da essere senza volontà guidato dai fili dell’accidentalità, della meccanicità, a uomo libero, padrone del suo destino.

La nascita di Pinocchio Creatura fiabesca, Pinocchio, come altre figure magiche, nasce in uno scoscendimento del mondo, in uno dei suoi gironi infernali. Come Cristo, che viene al mondo in una stalla assistito da aliti bestiali, Pinocchio nasce nella miseria, accerchiato dalla sventura, “in una nottataccia d’inverno” (il mio vecchio libro, un’edizione del 1958, riporta: “nottataccia d’inferno”), tra lampi e tuoni. Ecco un altro indizio che rivela sotto il travestimento da storia popolare, di tipo picaresco, la narrazione di un percorso iniziatico che ha inizio con la nostra venuta al mondo, il nostro ingresso in questa “valle di lacrime”’. Il simbolismo è fin troppo evidente. Nelle nostre società, cosiddette civili, la vita ha inizio secondo un rituale tra i più brutali.

Benvenuto all’inferno
Partoriti nel dolore, accolti dalle luci accecanti di una sala operatoria, dalle voci concitate dei medici e dalle grida di nostra madre, sculacciati e sdraiati su una fredda superficie d’acciaio, possiamo dire che l’accoglimento nella nostra nuova vita ha le caratteristiche di un vero e proprio ‘benvenuto all’inferno, Non ci vorrà poi molto al bambino per accettare la disciplina di maestri di sventura e una educazione che lo radicherà nella convinzione di essere approdato su un pianeta oscuro dove si nasce per morire e si vive per soffrire. In un mondo che è una ‘valle di lacrime’. Difatti, la nostra prima sensazione venendo alla luce è stata la paura terribile di soffocare, di essere sopraffatti, di morire. Da quel momento più nulla faremo, o ci apparirà familiare, che non abbia il gusto dolciastro della paura.

L’imprinting del dolore
È così che noi – che per i nove mesi della gestazione (ma in realtà per un’eternità) siamo stati esseri acquatici, re di un’universo liquido, tiepido e silenzioso, dalla luce soffusa – incontriamo la paura come prima impressione e da quel momento, come nell’imprinting delle oche, la seguiamo come la nostra vera genitrice. La paura e il dolore delimitano presto nella vita di un uomo comune i limiti delle sue possibilità; uno spazio ipnotico, irreale, entro i cui confini egli si sente sicuro come tra le pareti massicce di un bunker, metà rifugio, metà prigione.

Tutta la vita di un uomo ordinario sembra controllata da questo primo attimo, dall’esperienza di quel fuoco liquido che ha sentito attraversargli i polmoni nel terrificante passaggio da essere acquatico ad essere d’aria. Come il salmone che risale la corrente del fiume per tornare dov’è nato, abbiamo un lungo cammino da fare per riparare il trauma che ci è stato prodotto alla nascita e per rifare il viaggio di ritorno a casa, alla ricerca del paradiso perduto. I Pinocchi di Johannesburg Altri elementi della storia continuamente tracciano il parallelismo, il rapporto analogico tra le avventure di Pinocchio e la nostra vita. Pinocchio parte sempre con mille buoni propositi, si lancia in avanti con un candore a tratti commovente, ma poi, ogni volta, in un baleno devia dal suo percorso per seguire la strada più facile, quella della bugia, sperando di farla franca. E si abitua così tanto alla menzogna, da non essere più in grado di distinguere il vero dal falso, il giusto dallo sbagliato.

Noi siamo così.

I resoconti ufficiali e le cronache mediatiche sono traboccanti di buoni propositi, irreali come quelli di Pinocchio. Li abbiamo sentiti echeggiare di dieci anni in dieci anni, da Rio a Johannesburg, a Kyoto, espressi da leader mondiali che come il burattino nel suo primo giorno di scuola, fanno progetti/promesse di irreale onestà, fratellanza, sollecitudine verso i meno fortunati, i poveri, gli affamati, gli oppressi del mondo. L’animale che mente La storia di Pinocchio mette a nudo le nostre debolezze, la nostra ipocrisia, quella che è ormai nascosta persino a noi, abituati alla ginnastica continua della bugia.

Mentiamo a tutti quelli che ci circondano, per il nostro tornaconto personale. Ma quel che è peggio, mentiamo a noi stessi, ogni giorno, ogni ora e minuto della nostra vita, ci arrampichiamo su castelli di pregiudizi, di illusioni. Con l’invenzione del naso di Pinocchio Collodi ci mette davanti all’imbarazzante scoperta della nostra caratteristica psicologica dominante e più inquietante: l’inclinazione a mentire e, prima che agli altri, a noi stessi. E qui sta il punto: possiamo farla franca alla resa dei conti con gli altri, ma non riusciremo mai ad uscire indenni dal faccia a faccia con la nostra coscienza; quella è una parte di noi, ci legge dentro e si fa sentire, non ci molla un attimo, non abbassa la guardia, ci tormenta.

La menzogna è uno stato d’essere costante, a cui l’uomo viene “educato”  per tutta la vita. L’uomo è bugiardo e mente unicamente a se stesso. Povertà, guerra e malattia, nel mondo degli eventi, sono solo la conseguenza della conflittualità interiore generata dalla menzogna che ci avvolge fin dalla nascita, l’esecuzione di un preciso e monotono copione interpretato perfettamente. La bugia è diventata carne. Uscire dalla bugia richiede l’esercizio di studiarci, osservarci, per riconoscerla e, di conseguenza, estirparla.