Sito ufficiale del Prof. Stefano D'Anna

Buon Compleanno America

L’America  è in festa per il suo 226° compleanno ma l’American Dream mostra i segni dell’età e i guasti di troppi tradimenti. Il diritto alla felicità, alla vita, alla libertà, solennemente sanciti dalla storica Dichiarazione dei 13 Stati Uniti d’America rischiano di restare una epigrafe tombale sulla speranza dell’umanità di poter un giorno realizzare una società prospera e felice.

L’America ha sempre rappresentato nell’immaginario collettivo, dai Pilgrim Fathers agli immigranti siciliani dei primi del 900, e fino ad oggi, il sogno di un mondo nuovo, un mondo privo delle brutture che attraverso i secoli hanno irrimediabilmente corroso la vecchia Europa. Forse gli intenti di coloro che sbarcarono dalla Mayflower furono veramente questi, ma la realtà è che nella stiva della loro nave essi trasportavano i vecchi strumenti di tortura, segni premonitori e crudeli anticipatori di una storia di eccidi, torture, ferocia e sangue non diversa da quella del vecchio mondo. Il 4 Luglio l’America si ferma per celebrare se stessa con una festa che non è solamente un giorno di vacanza come per noi il 25 Aprile o il 2 giugno, ma un giorno che per ogni americano va celebrato in modo quasi sacrale. E’ l’Indipendence Day, commemorativo della storica Unanime Dichiarazione fatta dai 13 Stati, vero e proprio atto di nascita degli U.S.A. Questa data è emblematica del sogno americano e del modello di vita che invase il mondo con i film e la coca cola, il chewing gum, i blue jeans, le automobili, la televisione e la musica. Fino ai primi decenni del secolo scorso, l’Europa, con la sua scienza, la tecnica, l’economia, con la sua cultura e la potenza militare e politica, ha dominato la scena del mondo. Sono bastati pochi anni di storia terribile e di errori insensati perchè quella civiltà decadesse e cedesse al “paese dei grandi spazi”. Nella storia del mondo non si è mai assistito alla decadenza di una civiltà nel giro di un così ristretto numero di anni. Le grandi civiltà dell’Oriente, la civiltà greca, quella romana, lo stesso impero britannico, hanno visto il declino, dal momento del loro massimo splendore, dopo un assai più lungo periodo di quanto non sia avvenuto per l’Europa. Con le due guerre mondiali, gli americani divennero nell’immaginario collettivo i paladini della libertà e della sicurezza dell’Occidente, divennero l’altrove, la dimensione utopica in cui realizzare i sogni impossibili, la never-never-land dalle praterie sconfinate simbolo delle infinite occasioni che là si potevano cogliere. Forse, per non dissipare quest’immagine intessuta di sogni e di speranze, non si sono voluti cogliere altri aspetti della realtà americana: le sue contraddizioni interne, i leader neri bruciati giovani, gli intrighi internazionali e gli scandali politici (Watergate, Sexgate), finanziari (dal caso Enron in poi), per arrivare al fenomeno del terrorismo che ha sempre più incrinato “il senso di ottimismo” e la fede nell’immancabile Happy End che sono stati la principale sorgente del “sogno americano”.  Quando hanno paura gli americani guardano in alto. Non per ragioni logiche, non per fatti geo-politici, ma perché questo ha dettato l’oracolo cinematografico in settant’anni di incubi in celluloide e per altri venti, gli ultimi, di deliri digitali.

Il Diritto alla felicità

Oggi 4 luglio, nel fare gli auguri all’America, possiamo prendere atto di alcuni valori positivi della civiltà americana e riconoscere, oltre i grandi spazi, le basi della sua potenza in alcune conquiste fondamentali, come il genio dell’organizzazione e la fede nell’istruzione e nella tecnologia, in cui hanno saputo investire più di ogni altro. Ma l’elemento grandioso, per il quale dovremo per sempre essere grati agli Stati Uniti d’America è l’affermazione di un diritto mai prima sancito in alcuna Carta o Dichiarazione, in tutta la storia del mondo. Nella Carta dei Diritti dell’Uomo che prelude alla nascita degli Stati Uniti è affermato: “l’uomo ha diritto alla felicità”. E’ un’affermazione talmente sovversiva da sconvolgere tutto il vecchio ordine del mondo e far crollare pregiudizi millenari, come le mura di Gerico sotto i decibel celesti. E’ il vagito di una nuova umanità, un canto più forte di mille peana, capace di far fremere l’immensa assemblea del genere umano e di mettere in marcia milioni di uomini verso la conquista della propria dignità. L’uomo ha diritto alla felicità nasce da una visione capace di far saltare dai cardini tutto il vecchio impianto mentale di un’umanità sconfitta, è l’idea luminosa capace di riscattarci e darci un fine. L’uomo non è stato maledetto per sempre. Soffrire, invecchiare, ammalarsi e morire non sono una condanna ineluttabile e non possono più essere accettati come destino ineluttabile dell’uomo e sua naturale condizione.

La Dichiarazione ha un papà napoletano

Esattamente un anno fa, il 4 luglio del 2002, dalle pagine di questo giornale, rivelai la scoperta che quella espressione che tutti credevamo coniata da quei legislatori-filosofi capeggiati da Thomas Jefferson e da Benjamin Franklin, arrivò invece dall’Italia. La prima stesura della Dichiarazione, ancora in bozza, in quel punto recitava: “l’uomo ha diritto alla proprietà”. Ma questa proposta di John Locke non convinse Benjamin Franklin, il padre della Rivoluzione americana, chefece allora qualcosa di straordinario. Mandò una delegazione in Italia, e precisamente a Napoli, con la bozza dell’atto di nascita di quella nuova nazione e la missione di incontrare chi doveva completarla: Gaetano Filangieri. Ora sappiamo che l’atto di nascita degli Stati Uniti ha un papà napoletano. L’idea del diritto alla felicità è nata dall’intelligenza e dalla passione civile di Gaetano Filangieri, una delle voci più alte della coscienza europea. Benjamin Franklin la incastonò come un gioiello, insieme al diritto alla vita e alla libertà, in quella Unanime Dichiarazione dei Tredici Stati Uniti d’America che resterà monumento della speranza dell’umanità di creare una società prospera e giusta, e di diventare un giorno una specie felice e immortale. Tra “l’uomo ha diritto alla felicità”, coniato da Filangieri, inserito nel testo dalla Dichiarazione, e “l’uomo ha diritto alla proprietà”, proposto da Locke, passano eternità. L’ascesa che gli USA conosceranno tra le nazioni della terra, la capacità  di attirare e di assimilare uomini da ogni parte del pianeta, attirati da quel profumo intenso di libertà, the american dream,trovano origine e spiegazione in quel granello di immortalità, in quel seme luminoso inserito nella Dichiarazione. Da questo si sviluppa l’economia e la potenza degli Stati Uniti. Il diritto alla felicità  diventa più americano della bandiera a stelle e strisce e l’espressione più alta dei principi e della missione di quel paese. Partita dall’Italia la storia degli Stati Uniti, con la scoperta di Colombo, ritorna all’Italia con Filangieri per il suo atto di nascita, come in un simbolico ritorno al padre che mostra il forte intreccio dei destini dei nostri due popoli. Non potrei trovare migliore occasione della ricorrenza del 4 Luglio per affermare la mia convinzione che quel frammento d’immortalità penetrato in quel manifesto, è la vera origine di ogni benessere di cui l’America ha poi goduto per oltre due secoli. I segnali di decadenza di quella società sono poi diventati tanti e si sono acutizzati. Quella promessa al mondo, di disponibilità verso i suoi problemi, in una prospettiva di significato universale, capace di abbracciare popoli e civiltà, non si è compiuta. La distruzione delle World Towers dell’11 settembre è soltanto il segno visibile di una lunga degradazione del ‘sogno’ che si è gradualmente trasformato in cupidigia, in volontà di potenza, e non infrequentemente in sfruttamento e sopraffazione. La conflittualità, la criminalità, un’economia che è una macchina di morte, con al centro l’industria bellica più grande del mondo, vanno in direzione opposta a quei valori di dignità e di libertà indicati dal ‘sogno’. Quando una società ha un numero di obesi che ha superato di molti punti il 50% non ha bisogno dei talebani per conoscere il sabotaggio e il disastro.

L’America è uno stato d’essere

E tuttavia oggi, 4 luglio, a tanti anti-americani di maniera, ai profeti di sciagura e alle cassandre professioniste, va ricordato che l’America non è solo una nazione, e tantomeno va ridotta a un luogo, a un’espressione geografica, a una terra tra due oceani. Essa è in realtà la materializzazione di un sogno che ha radici lontane, che tutti noi portiamo in una piega segreta dell’essere, nella parte più profonda, migliore di noi. L’America è quel sogno di bellezza e di felicità che i nostri padri sognarono oltre tremila anni fa sulle coste dell’Attica e nel cui liquido amniotico ancora nuotiamo, feto di quell’età di giganti. L’America è quella parte di noi che ancora aspira a un mondo nuovo, che vuole la felicità, che ha giurato di essere libera. Se l’America ha fallito, dobbiamo darcene la colpa e riconoscere che quel sogno non abbiamo saputo nutrirlo né difenderlo. Dobbiamo riconoscere che non siamo ancora pronti a vivere in quella condizione di spirito, né come individui né come specie. L’America è ancora una volta un esperimento fallito, parte della lunga storia di tentativi fatti per creare una società giusta e felice. L’America, erede ideale di Filangieri, idealista e giurista, ancora crede che la felicità possa arrivarci dall’esterno. Come Rousseau, ancora crediamo che il cambiamento delle leggi, la repubblica, la democrazia, la liberalizzazione delle istituzioni politiche e civili, possano portare felicità ai popoli. Ancora ignoriamo che la felicità è possibile solo all’individuo. Solo chi ha sconfitto in sé la logica conflittuale, le forze opposte che da sempre si combattono nel cuore di ogni uomo ha diritto alla felicità. E solo un uomo felice può cambiare l’economia e portare guarigione ai millenari problemi del mondo.